E’ sempre più frequente osservare la nascita di applicazioni e piattaforme inventate, costruite e alimentate da singoli blogger, da giornalisti o da intere redazioni. Si tratta di tool che in genere contemplano un certo grado di collaborazione da parte degli utenti e che, oltre allo scopo evidente di “narrare” qualcosa, servono a contribuire a cambiare una situazione, a risolvere un problema specifico.
Uno dei primi esempi di questa tendenza fu Ushahidi. Come molti ricorderanno, questo software open source nacque nel 2008 in Kenya per mappare e registrare in tempo reale le testimonianze oculari delle vittime degli episodi di violenza che si stavano verificando nel Paese a seguito delle elezioni presidenziali. Ory Okolloh, una blogger, avvocato di professione, intendeva in questo modo non soltanto raccontare, ma anche documentare l’entità e le caratteristiche delle ondate di violenza, convogliare l’attenzione dei media internazionali su quanto stava accadendo e contribuire a contrastare il fenomeno.
Da allora la diffusione della cultura digitale e la progressiva semplificazione degli strumenti tecnologici hanno prodotto quello che può ormai definirsi un vero e proprio fenomeno, un fenomeno che negli Stati Uniti è stato recentemente battezzato “solution journalism”,
“Media organisations have started to understand that a constant barrage of problem-focused news can harm society”.
Gli esempi vanno da piattaforme molto semplici come il Care Calculator della BBC che consente agli anziani di capire costi e servizi dell’assistenza in base alla loro zona di residenza, a iniziative più complesse come Civicist, un progetto nato per monitorare le realtà di cittadinanza attiva che utilizzano o sperimentano strumenti avanzati di comunicazione.
Se si segue il ragionamento di Charlie Beckett, la risposta è no. Il giornalismo infatti ha sempre trovato la sua identità nell’atto di connessione: connessione del contesto con l’attualità, dei cittadini con i processi istituzionali di costruzione politica, dei cittadini con le fonti di informazione, delle comunità con altre comunità. Quello che è certo tuttavia, è che si sta ampliando la gamma delle sue possibilità connettive e delle sue possibilità espressive.
Le persone hanno sempre considerato che ci fosse un valore nella denuncia, nel reporting, nella ricostruzione dei contesti interpretativi delle notizie. Nella loro esperienza, questi atti di giornalismo soddisfano bisogni. Bisogno di verità, di coerenza, di completezza del quadro. Da questo punto di vista il giornalismo è sempre stato vissuto come “soluzione”.
Forse il punto centrale del ragionamento da fare è che gli strumenti e le forme espressive che il giornalismo aveva a disposizione nel passato riuscivano a rispondere ad una rosa limitata di bisogni delle persone. Questi strumenti e queste forme sono diventati nel tempo dei cliché: format consolidati, schemi di trattamento delle notizie, schemi di relazione fra il giornalista e il lettore. Il digitale ha improvvisamente moltiplicato gli strumenti e le forme espressive. Dunque oggi esso è in grado di rispondere a una gamma più estesa di bisogni.
Ciò che osserviamo nel solution journalism è il continuo formarsi di nuove coppie fra bisogni e soluzioni. Spesso queste coppie si creano ad opera di soggetti che non definiremmo “giornalisti”, ma non esiteremmo a definire come un atto di giornalismo i frutti di queste coppie, in altri casi vediamo giornalisti provare a rispondere a un bisogno delle persone con nuovi strumenti, ma non siamo sicuri che ciò che ne risulta sia “giornalismo”.
In ogni caso però sappiamo che il digitale continua a procedere nella sua incessante opera di innervamento della realtà. Pervade gli oggetti della nostra vita quotidiana, da ciò che indossiamo ai luoghi che percorriamo ogni giorno. Ciò che viene veicolato in questa sorta di fibra nervosa è informazione. Il giornalismo contemporaneo è dunque chiamato a connettersi strutturalmente alla realtà immergendosi in essa attraverso il digitale. E’ in questa immersione che il giornalismo può confrontarsi con nuovi bisogni, cercare nuove soluzioni, filtrare, connettere, creare nuove informazioni. Il giornalismo che pervade la realtà è un giornalismo che la plasma e la modifica. In questo senso è un giornalismo che “prova a risolvere”, che “agisce”.
Questa opportunità forse non ridefinisce il giornalismo, ma di sicuro ridefinisce il suo rapporto con le persone. Queste persone, grazie alla rete, possono “sentirsi parte” delle azioni compiute dal giornalismo. Possono vivere vere e proprie “esperienze di relazione” con una redazione. E possono percepire in prima persona il valore di queste azioni e di queste esperienze. Il “giornalismo d’azione” (se preferiamo questa definizione a solution journalism) è la chiave per sprigionare questo valore e tramutarlo anche in valore economico. Per questa ragione è fondamentale osservarne le mosse, impararne le tecniche, ritornare ai nostri utenti con occhi e con orecchie diverse.
Cos'è esattamente il Solutions Journalism, il giornalismo della soluzione? È possibile ricavare una definizione rispetto ai casi concreti già emersi?
Esistono delle ragioni intrinseche, motivazioni storiche, necessità e bisogni concreti che costituiscono l'habitat naturale e il fattore scatenante del solutions journalism?
Quali conseguenze ha prodotto già il Solutions Journalism sul giornalismo tradizionale. Si possono citare casi (di successo o meno)?Si possono fare previsioni?
Come si riflette sul business? Ci sono casi concreti e/o progetti che mostrano gli effetti del Solutions Journalism anche di chiave di prodotto e risultati economici?
Questa tendenza è contagiosa? Possiamo immaginare che prima o poi contaminerà anche i quotidiani nostrani?
Se questa tendenza è contagiosa, si propagherà solo in ambito locale (dove forse è più facile identificare traguardi e raggiungerli) oppure anche in ambito generalista?